Anche noi informatici dobbiamo mettere in pratica nuove norme di sicurezza. Ma nessuno ha pensato al miglior dispositivo di protezione individuale per noi
Come i miei venticinque lettori sanno, in questo blog amo alternare argomenti diversi. A volte massimi sistemi, a volte soluzioni pratiche, a volte stretta attualità, a volte argomenti senza tempo. Oggi voglio semplicemente raccontarvi una soluzione pratica a un problema complesso. E raccontarvi quello che secondo me è il miglior dispositivo di protezione individuale per informatici.
Come fanno gli informatici da assistenza, come il sottoscritto per quasi metà della sua vita, a difendersi in modo efficace dai rischi di contagio? Ecco la mia soluzione:
Il miglior dispositivo di protezione individuale per informatici? Una tastiera wireless
Il problema è noto a chiunque faccia assistenza on site: noi informatici smanacciamo un sacco di postazioni. E sappiamo che proprio il contatto fra mani e oggetti è uno dei principali rischi di contagio.
Guanti e mascherine sono obbligatori, almeno in questa fase, ma come l’OMS non si stanca di ripetere, i guanti non sono efficaci, a meno che non li cambiamo dopo ogni singolo contatto. Lavarsi le mani è la soluzione migliore, ma cosa succede quando i tempi sono stretti?
Inoltre, sappiamo che anche la tastiera del più rupofobico dei colleghi è un ricettacolo di sporcizia e batteri.
Naturalmente non possiamo evitare le disposizioni di legge. Ma niente ci impedisce di aggiungere ulteriori livelli di sicurezza, se non aggiungono margini di rischio e non incidono sull’efficacia dei nostri interventi.
La mia soluzione
Come probabilmente saprete, sono un amante delle soluzioni semplici. Che spesso, soprattutto nell’emergenza, si rivelano le migliori. In questo caso, la soluzione è semplice in modo sconfortante. Avevo in casa la signorina della foto (marca Logitech, comprata quando avevo la mania dei Media Center per il salotto, ma qualsiasi altra simile va bene). Una banale tastiera Wireless con touchpad, che si collega con un dongle USB.
Perché funziona?
Molto semplicemente: non è un modello recentissimo e funziona senza driver praticamente su ogni PC costruito negli ultimi 15 anni. E’ compatta e pratica, in un solo oggetto mi da mouse e tastiera. Non è troppo piccola, il layout è simile a quello di un portatile, ed entra in una borsa.
Me la porto dietro, la collego a una porta frontale del PC che devo utilizzare e non tocco nient’altro. Per maggiore sicurezza, la si sanifica dopo ogni sessione. Ma con un po’ di attenzione, nel 95% dei casi è l’unica cosa che dobbiamo toccare per fare qualsiasi tipo di intervento.
Nel mio caso, quando ho finito stacco il dongle, lo ripongo e di fatto ho risolto l’intervento entrando in contatto solo con materiale di mia proprietà, che viaggia con me e soprattutto viene sanificato direttamente dal sottoscritto.
I dispositivi di input personali potrebbero diventare una soluzione scalabile?
Francamente, non so se l’uso di tastiera e mouse personali potrebbe essere una soluzione applicabile in scala (non sono né un manager né un esperto di regolamenti sulle risorse umane). Ma di sicuro andrebbe quantomeno preso in considerazione per le postazioni condivise su turni, giusto per citare un caso.
Mi dicono che, per esempio, nei call center gli operatori spesso usano già una cuffia personale, che collegano all’arrivo. Non è poi così diverso. E anche a livello di costi, si tratta di poche decine di euro a set, soprattutto per i grandi acquisti.
Dal mio punto di vista è una soluzione che andrebbe almeno valutata. Io, nel frattempo, mi sono attrezzato. E consiglio ai colleghi informatici di fare altrettanto.
Moltissime aziende si sono attrezzate per il Remote Working (non troppo smart), ma spesso i problemi tecnici e organizzativi lo minano. Ecco alcune soluzioni pratiche.
Lo ammetto. Quando ho pubblicato il primo post sullo smart working non mi aspettavo un decimo del successo che ha avuto. Che ovviamente ha portato anche a diverse critiche. Quella più ricorrente è di avere fatto molta teoria e poca pratica, in soldoni. Ma visto che non mi dispiacciono affatto le sfide, in particolare quelle professionali, questa volta proverò a fornire soluzioni pratiche a problemi reali legati al Remote Working.
Primo problema: l’organizzazione dei materiali di lavoro
Parliamoci chiaro: le realtà in cui tutti i file e i documenti sono perfettamente organizzati sono davvero poche. E se nella normale vita da ufficio basta dare una voce al collega per sapere se si è tenuto sul desktop l’ultima versione del lavoro, farlo mentre si lavora da remoto non è altrettanto semplice né agevole.
La soluzione è semplice nel principio e durissima nell’applicazione. Da parte della dirigenza, o della direzione del progetto, deve essere stabilito e comunicato chiaramente dove e come devono essere condivisi tutti i documenti e i file di lavorazione. E, ovviamente “nel Drive / Dropbox / Server Aziendale” non è una risposta intelligente. Anzi, non è proprio una risposta. Devono essere stabilite a priori percorsi e cartelle per tutti i salvataggi che devono essere condivisi con tutto il gruppo di lavoro, assicurandoci che siano stati recepiti.
Ovviamente, le condivisioni via posta elettronica o chat non vanno nemmeno prese in considerazione, se non per le emergenze assolute e in modo temporaneo.
Secondo problema: la connettività non è uguale per tutti
Questo problema riguarda soprattutto chi ha collaboratori in zone periferiche, ma nei prossimi giorni, vista la pressione a cui Internet è soggetta, potrebbe riguardare tutti: nella maggior parte dei casi la connessione di casa di ciascuno non è nemmeno paragonabile alla linea business ridondata che c’è in ufficio (e qualora lo fosse, sistemare lo smart working dell’azienda è letteralmente l’ultimo dei problemi digitali).
Dare per assunto che tutti i membri del team possano passare le giornate in videoconferenza mentre scaricano dal cloud 2 GB di file dimostra solo una cosa: non conosciamo l’infrastruttura italiana. E lo stesso vale per soluzioni più 1.0 come le VPN o il desktop remoto: il fatto che siano predisposti e l’azienda sia in grado di supportarlo per tutti, non dà automaticamente a tutti banda e hardware sufficienti per usarli in modo produttivo.
La soluzione: fatti salvi alcuni casi di reale necessità, la banda viene usata senza alcun metodo. Ridurre la qualità delle videoconferenze (o concordarsi per disattivare il video quando non è strettamente necessario) potrebbe essere un buon inizio. Ma anche verificare il reale ingombro dei file e quali sono davvero necessari aiuta, e molto. Anche scegliere il formato giusto può essere di aiuto. Voler passare per forza le immagini in un formato da 50 MB ciascuna al collega che si occupa dei social significa semplicemente far perdere tempo a tutti. Così come portarsi appresso tutte le versioni di un progetto degli ultimi sei mesi. E sono solo due esempi fra i tanti.
Terzo problema: la multicanalità non è “smart”, è un disastro
Altro pessimo vizio mutuato dalla normale vita di ufficio: le informazioni vengono passate con il famoso modello che ha a che vedere con canidi e parti anatomiche. Per cui, per avere tutte le informazioni, bisogna raccoglierne una parte via mail, una su Skype, una sui documenti condivisi e magari anche una su WhatsApp. Sempre che alcune informazioni fondamentali non siano state dette a voce o al telefono a un solo membro del team.
Un incubo kafkiano in cui sono certo che molti si identificano, e che con il lavoro da remoto viene maggiormente acuito.
La soluzione: come prima cosa, l’utopia massima sarebbe avere un solo canale condiviso, e al massimo usare gli altri come supporto. Ma le informazioni fondamentali devono sempre circolare sul canale scelto, o esservi riportate. Anche perché spesso l’uso disorganizzato degli strumenti deriva da pigrizia, mentale e operativa, di alcuni elementi che usano letteralmente quello che sono più comodi a usare in qualsiasi momento.
Un’ultima cosa: trincerarsi dietro la presunta istantaneità di alcune soluzioni rispetto ad altre è immotivato e antiquato. Ogni strumento di comunicazione si può avere su qualsiasi piattaforma e anche se un messaggio WhatsApp arrivasse qualche istante prima di una mail, la disorganizzazione che ne consegue manda in fumo i venti millisecondi risparmiati di svariati ordini di grandezza. E questo ci porta al punto successivo.
Quarto problema: gli strumenti di produttività funzionano: a due condizioni
Uno dei punti più controversi del mio passato intervento è quello in cui, secondo alcuni, criticavo gli strumenti di produttività come Teams, Slack, Trello, Asana e così via. Ho già chiarito ma ribadisco: gli strumenti sono ottimi mentre l’uso che ne viene fatto è quasi sempre pessimo.
La spiegazione è semplice: quando si sceglie un metodo, bisogna rispettarlo al 100%. Quindi, se abbiamo i problemi indicati al punto 4, inserire nella filiera uno strumento di produttività non farà altro che aggiungere un posto in cui dover cercare i pezzi del puzzle. Ecco perché, la prima condizione da rispettare è che tutti si attengano al piano.
La seconda condizione è anche una parziale giustificazione di quanto sopra: gli strumenti di produttività devono, per definizione, renderci più produttivi. Se la compilazione di un task richiede il triplo del tempo che ci vuole a eseguirlo, nessuno, a ragione, userà lo strumento.
La soluzione: regole severe ma intelligenti. Se un task da dieci minuti ne richiede dodici di scartoffie digitali, è perfettamente legittimo che le persone tendano a schivarle. Quindi, la prima soluzione è utilizzare sistemi di circolazione delle informazioni ragionevoli, riducendo la burocrazia interna al minimo indispensabile. Ma allo stesso tempo pretendere rigore su quel minimo.
Se abbiamo membri del team particolarmente resistenti, possiamo approcciare il problema in modo morbido (“questa volta carico io il file, ma ricordati”) per andare via via a irrigidirci (“non posso proseguire il lavoro fino a quando non mi segni i task come chiusi”). Questo naturalmente dando per assodato che la visione sia condivisa anche dalla proprietà o dirigenza e che supporti l’iniziativa. In caso contrario soluzioni alla Abbasov sono da considerare legittima difesa.
Quinto problema: pur lavorando di più, si produce di meno (e si, quasi sempre è colpa delle riunioni)
Parliamoci chiaro: la ragione fondante di un buon 50% delle riunioni che dobbiamo affrontare è l’inefficienza: nella comunicazione, nei processi decisionali o in quelli produttivi.
E con il remote working il problema si è acuito, perché moltissimi meeting, o anche solo chiamate o conference call vengono fatte “perché bisogna”. Chiariamoci: in alcuni casi sono davvero indispensabili. Ma il briefing mattutino o quello dopo pranzo nella maggior parte dei casi sono inutili, se non si lavora in settori legati all’emergenza, non siamo delle forze speciali o in un (brutto) film di spionaggio internazionale.
Inoltre, le videoconferenze durante il remote working tendono a protrarsi molto più a lungo del normale, per tutta una serie di ragioni che vanno dagli aspetti tecnici alla carenza di disciplina.
La soluzione: oltre a quella ovvia di ridurre al minimo le videoconferenze, invitare solo chi è davvero indispensabile è già un ottimo punto di partenza. Inoltre stabilire prima un programma per punti e affrontarne solo un numero sostenibile è un altro ottimo modo per rendere le call più agili e organizzate. L’utopia massima (grazie a Silvia per avermelo segnalato) sarebbe quella di condividere una scaletta, anche dei singoli interventi, e di pianificare fin da subito l’orario delle conclusioni
Un consiglio: un buon metodo per smorzare gli entusiasmi verso il feticcio delle call è quello di chiedere a chi le indice un programma o un argomento. In fondo arrivare preparati è un nostro diritto / dovere. Il fatto che in questo modo sia molto più difficile indire conference call senza una vera ragione è solo un vantaggio collaterale.
Un discorso analogo vale per la burocrazia interna che in molti casi, invece di essersi alleggerita con lo “smart” working, è diventata ancora più rigida e invasiva, andando a sottrarre tempo e risorse preziose alla produzione.
La soluzione: il 99% della burocrazia è immotivata, soprattutto di quella interna. E quasi sempre nasce da prese di posizione e difesa di qualche vantaggio territoriale. Sfortunatamente è anche una delle dinamiche più complesse da disinnescare. Il cambio di paradigma potrebbe essere funzionale al cambiamento, ma richiede da parte nostra uno sforzo di applicazione costante. “Avete notato che da quando usiamo Google Drive invece dei faldoni non serve più fare una copia dei documenti per ogni reparto?” “Questo mese abbiamo chiuso tutte le attività e abbiamo azzerato i costi di stampa”. Ci siamo capiti.
Perché Remote Working e non Smart Working?
Come tutte le persone che si guadagnano da vivere, o per lo meno ci provano, con le parole, ho sviluppato negli anni una discreta avversione per le parole usate a sproposito. E il fatto di lavorare da casa, non significa automaticamente che si sta lavorando in modo più intelligente, anzi. Ma magari questo sarà oggetto di un prossimo post. Sto iniziando a prenderci gusto.
Troppo spesso chi fa consulenza digitale dimentica di costruire dalle basi. In una recente lezione ho provato a dare una lettura diversa.
Il mondo delle consulenze è interessante sotto molti punti di vista. Uno degli aspetti che ho sempre preferito è l’opportunità di conoscere realtà diverse, esigenze diverse e nuove sfide. Se c’è una cosa che ho imparato in quasi vent’anni di consulenza strategica, digitale soprattutto, è che questo settore ha un difetto strutturale. Manca, da parte dei committenti, la percezione della consistenza del nostro lavoro.
Alzi la mano chi, da consulente digitale, non ha avuto spessissimo l’impressione che il suo lavoro venisse considerato, nella migliore delle ipotesi, un male necessario. Oppure direttamente qualcosa di inutile ma che deve essere fatto “perché lo fanno tutti”. Naturalmente qui parliamo delle aziende esterne al settore digitale e informatico quelle cioè in cui la consulenza digitale, al contrario, dovrebbe essere preziosa.
Consulenza strategica digitale? Sì, ma non dimentichiamoci le basi
Invece, troppo spesso, un consulente digitale si trova seduto a un tavolo in cui le prime parole che si sentono pronunciare sono “Abbiamo già provato, ma non ha funzionato“. Potrei, e potremmo, disquisire delle ragioni di questo fenomeno per giorni, ma non troveremmo una soluzione. Nei miei anni di esperienza, tuttavia, mi sono accorto che alcune ragioni sono in comune quasi a tutti. Ho cercato di sintetizzarle in modo più pragmatico possibile.
Questione di pratica
Spesso non viene spiegata la differenza fra una consulenza strategica e l’implementazione operativa della stessa. E per qualche curioso motivo tutto italiano, sembra che parlare del “chi fa cosa” sia una sorta di tabù. Quindi, il consulente digitale si siede al tavolo convinto che il suo lavoro finisca quando avrà delineato una strategia per il cliente. Il cliente dal canto suo non è interessato alla strategia, ma cerca qualcuno che si occupi degli aspetti pratici. E questo crea i primi fraintendimenti.
Troppe cose per scontate
Spesso i consulenti, in particolare quelli che provengono da un certo tipo di formazione o da alcune scuole di pensiero, puntano molto in alto. Si parla di CRM, di inbound marketing, di multicanalità, e tutto sembra bellissimo. Salvo poi scoprire troppo tardi che il cliente non ha gli account di posta elettronica configurati correttamente, oppure che il target del cliente fa uso marginale di strumenti tecnologici.
Insomma, si da per scontato un livello di partenza che spesso non corrisponde alla realtà.
La prima regola della consulenza strategica digitale è conoscere
Conoscere il cliente, conoscere alla perfezione l’ecosistema in cui si muove e la realtà aziendale. In un mondo perfetto, fare consulenza senza aver passato almeno qualche giorno nelle sedi del cliente dovrebbe essere vietato per legge.
Troppi infatti (ma questo è un problema condiviso con praticamente ogni settore ormai) offrono soluzioni preconfezionate, spesso basate su un’idea astratta della realtà che qualunque titolare d’azienda sa essere falsa. Peraltro, senza occuparsi o preoccuparsi dei reali problemi.
Perché odi i sistemisti come categoria, intendo. La gestione degli Strumenti di amministrazione remota del server cambia con regole kafkiane.
Come sapete, scrivo poco e quasi sempre di altri argomenti, ma questa disavventura con gli Strumenti di amministrazione remota del server merita di essere raccontata. Non tanto per la “scoperta” in sé, quanto perché spiega alla perfezione un certo tipo di approccio. Del quale Microsoft sta cercando di liberarsi, ma che affligge ancora molte aziende. Parlo della furia iconoclasta, ovvero l’assoluta incapacità di conservare una procedura o una pratica in modo da agevolare gli addetti ai lavori.
Gli Strumenti di amministrazione remota del server sono una comodità
Questo è innegabile per chiunque amministri uno o più server in ambiente Active Directory: si installano su una macchina locale annessa al dominio e lo si controlla senza bisogno di accedere ogni volta al server in remoto. Da sempre, o per lo meno da Windows 7, devono essere scaricati a parte e funzionano solo con le versioni “pro” del sistema operativo. Fino a qui nulla di strano. A questa pagina si trovano i pacchetti e le istruzioni.
Qui si parte con le nevrosi
Confrontiamo la sezione Download con quella degli Strumenti di amministrazione remota del server per Windows 10
Download Strumenti di amministrazione remota del server per Windows 10
Download Strumenti di amministrazione remota del server per Windows 7
The Hell? Windows 7 ha due download: 32 e 64 bit. Facile e pulito. Windows 10 ha SEI PACCHETTI. Tre a 32 e tre a 64 bit. Che dipendono dal numero di versione di Windows 10, cioè dall’aggiornamento installato. Che va controllato nelle informazioni di sistema. Grazie Microsoft per avere introdotto un’altra possibile sorgente di errore. Ma a questo si può sopravvivere.
Ma, cara Microsoft perché cambi una procedura consolidata?
Facciamo un passo indietro. Sempre sulla pagina ufficiale del download degli Strumenti di amministrazione remota del server di Windows 7, possiamo trovare la procedura, tutto sommato semplice.
Per farla breve, consta di tre semplici passaggi:
Installare il pacchetto scaricato
aprire il Pannello di Controllo, scegliere Programmi e funzionalità -> attiva o disattiva componenti di Windows.
Scorrere fino a Strumenti di amministrazione remota del server e attivare quello che ci serve
Ora, Windows 7 ha nove anni. E, a memoria d’uomo, la procedura è sempre stata questa.
Fast forward a giugno 2018
Capita di dover installare gli Strumenti di amministrazione remota del server su Windows 10. Ci si confronta fra colleghi. Circolano le solite informazioni: “Scarica, installa, apri il pannello di controllo, attiva quello che ti serve, bella li”.
Il primo tentativo va a vuoto, non trovo gli strumenti fra i componenti di Windows. Controllo di avere scelto il pacchetto giusto. Provo a scaricarlo nuovamente.
Secondo tentativo. Come il primo. Va bene, il computer ha qualche grana. Provo su un altro. Stesso risultato.
Ne provo tre. Niente di niente. Sentendomi come Zoolander davanti al computer, scrivo una mail ai colleghi più esperti.
La risposta è la perifrasi educata di quello che abbiamo detto sopra “Scarica, installa, apri il pannello di controllo, attiva quello che ti serve, bella li“. Niente di niente.
Poi, per puro caso, uso Cortana per cercare informazioni. E mi si palesano gli Strumenti di Amministrazione Remota come gruppo di App installate. Eppure non le ho attivate. Incredulo, controllo e mando uno screenshot ai colleghi:
strumenti di amministrazione del server su WIndows 10
Bug? Malfunzionamento? Nemmeno per sogno. Microsoft, dopo quasi dieci anni, cambia la procedura. E ovviamente si premura di documentarlo. Dove?
Qui:
Le informazioni sulla nuova modalità di installazione sono a metà pagina. In un paragrafo che bisogna aprire cliccando.
Ho conservato lo screenshot dell’intera pagina per dare un’idea delle proporzioni. Esatto. A metà di un paragrafo che deve essere aperto per potersi leggere. Quante sono le possibilità che un professionista che ha fatto la stessa cosa nello stesso modo per svariati anni ci vada a leggere prima di farla per l’ennesima volta?
Ora, colpa nostra di sicuro. A ogni piede sospinto meniamo il torrone ai nostri utenti con il fatto che le cose vanno fatte con attenzione e le istruzioni vanno sempre lette. Ma magari quel terzo abbondante di primo scroll che Microsoft ha prontamente pensato di usare per cercare di vendermi un Surface poteva essere usato diversamente. Che ne so, magari con un annuncio: “Brava gente, guardate che in Windows 10 la procedura è cambiata: controllate le istruzioni. Nel frattempo, vi interessa un Surface? Oggi vengono via a poco“.
Purtroppo, al di là dello scherzo, questo è un dramma estremamente diffuso nel mondo IT: la gestione delle informazioni è sempre complessa, frammentaria. Provate a cercare i driver di un computer di marca di più di cinque anni fa, per esempio. Oppure la iso di un disco di ripristino.
In questo caso poi, il fatto che prima dell’informazione venga il tentativo di vendermi qualcosa rende le cose ancora più fastidiose. Perché, cara Microsoft, se sto cercando di scaricare un tool come questo, sono già tuo cliente e mi hai venduto, direttamente o indirettamente, almeno due sistemi operativi. Per non parlare di tutti quelli che “dipendono” dal mio lavoro. Farmi lavorare meglio significa guadagnare di più nel medio e lungo termine. Sei proprio sicura che fare cassa subito cercando di stantuffarmi un Surface invece di darmi le informazioni che mi servono sia una buona idea?
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